Tre simboli dei regni canonici della Natura: animale, minerale e vegetale che si fanno incubatori di vita e ingredienti della più autentica identità mediterranea. Così lo stesso mare bagna Tel Aviv e Bari, ed è lo stesso sale ad arricchire sapienze e sapori di antiche radici comuni. Lo stesso vento a contaminare i profumi di giardini lontani tra loro e, attraverso il lamento delle diomedee, a rimandarci echi mediorientali di affascinanti e sconosciuti arabeschi musicali. Così come, nel silenzio più assoluto del deserto, sarà emozionante percepire il suono delicato di un flauto che accompagna il volo di un bruco fattosi farfalla, il borbottio vellutato di un fagotto che accarezza le angosce di spiriti mai rassegnati, o l’agrodolce acuto di un violino che sostiene l’esile filo di una speranza.
Nell’efficace, funzionale e “futurista” sintesi scenografica di Gae Aulenti, la sezione di umana realtà quotidiana, raccontata in prosa e poesia ma pensata in musica e danza da Amos Oz, si scompone come in un quadro di Picasso, di Braque o di Mondrian. Per andare oltre gli stereotipi del passato e nella modernità reinventare nuove forme di linguaggio, anche musicale, più in sintonia col contesto e le prospettive “digitali” delle nuove generazioni. Trattandosi di una “opera nuova”, sarà necessario rivederla e soprattutto riascoltarla più volte, ma questa è la cifra del lavoro di Fabio Vacchi, della regia di Federico Tiezzi e dell’interpretazione fedele di Alberto Veronesi con l’apprezzatissima Orchestra del Petruzzelli, di cui è altrettanto “contemporanea” la nomina a direttore stabile.
Una e trina anche la narrazione, che si fa protagonista maieutica di una rappresentazione polifonica, policromatica e poli-caratteriale. Una sorta di scomposizione del coro classico del teatro greco, col narratore 1 (un eccellente Sandro Lombardi) unico elemento fisso incastonato nella scenografia, a cui si alternano gli interventi non solo vocali di Giovanna Bozzolo e Graziano Piazza, che porta in scena nientemeno che lo stesso scrittore Amos Oz.
Una rete che cede e si tende per ammortizzare e rimandare il caleidoscopio di vocalità e di temi musicali che, nell’azione scenica introspettiva, ruotano ancora attorno a una “triade” di tonalità Soprano. Dove ai tempi evanescenti della morte-Nadia (Sabina Macculi) ed alle esitazioni confuse e spregiudicate di Dita (Yulia Aleksyuk), fa da contraltare il carattere più forte e maturo di Bettin Carmel (Chiara Taigi) sottolineato da un timbro decisamente più corposo. Lo scoglio a cui ancorare le nevrosi, le ansie e le paure di Albert Danon (Julian Tovey), il protagonista a corto di spirito d’iniziativa.
Guidati dal faro del compromesso e utilizzando, col medesimo ritmo intermittente, le gomme metaforiche dell’ascolto e della perseveranza, le stesse da sempre usate da Amos Oz nel suo impegno per la Pace, il miracolo è avvenuto. Le prime linee di confine cominciano ad essere meno marcate. L’universalità del gioco di scena e dei linguaggi musicali rendono meno evidenti le distinzioni tra prosa e poesia, opera e tragedia, vita e morte, autore e personaggi, deserto e giardino. Un buon auspicio per ben altre linee di confine, diventate addirittura muri di vergogna.
“Ponimi a sigillo sul tuo cuore” canta Nadia nel secondo atto, traendo dal Cantico dei Cantici una delle più belle dichiarazioni d’amore mai pronunciate. La stessa che Bari ha voluto estendere a Fabio Vacchi ed Amos Oz con la consegna del Sigillo della Città. Grazie a loro e a tutti gli attori del progetto “Lo stesso mare”, possiamo dire anche al Petruzzelli “Il futuro è già oggi”. Ha la forza del moderno, il coraggio della gioventù e tutte le controversie dell’amore. Bari imparerà presto ad amarlo!